Psicoterapeuti

Quando, a sera tardi, mi capita di entrare nella stanza dove ricevo, e la stanza è semibuia, illuminata solo dalla luce che cola dal corridoio, la tapparella è abbassata e nulla entra da fuori, mi viene incontro una grande pace, un grande silenzio.
Per conservare quell’atmosfera tersa, entro in quella stanza solo quando  ricevo.
Le persone che vengono a parlare con me per un confronto che sia loro d’aiuto.entrano a far parte del mio mondo interiore. Hanno un posto nel mio cuore e nella mia intelligenza. Dentro di me non sono invadenti. La mia vita scorre come quella delle persone che hanno altre professioni.
A volte capita che mi vengano in mente le persone che mi consultano, così come accade con altre  persone della nostra vita con cui si ha un rapporto n diverso da quello psicoterapico. Ogni tanto qualcuno mi  domanda: “ma come fai a sopportare il loro dolore, l’impotenza, la disperazione, la confusione?”
Non è troppo pesante perché chi si rivolge a me, psicoterapeuta, lo fa con  hanno un atteggiamento attivo: cercando aiuto. Il mio atteggiamento, per conseguenza, è avere  la fiducia, la speranza di poterli aiutare. In più, certo, non voglio sminuire i mezzi teorici e clinici che ho appreso, sui testi, ai seminari, e, soprattutto nella mia vita, anche proprio con i pazienti e con le persone che hanno partecipato ai seminari  e gruppi che ho condotto.
 
Non fate mai lo psicoterapeuta, il counsellor, il coach o simili, mai e poi mai, se potete farne a meno. Si può incappare nel burnt-out e questo è il meno; confondervi e creare confusione, fare molto male agli altri, o far perdere loro tempo e denaro, Potreste avere la perniciosa impressione di avere potere, e accrescere il vostro senso di separazione (la nostra cultura ci fa crescere in un errato senso di essere nuclei separati, che operano e sentono solo per sé),  rafforzare il bieco vizio, anch’esso in parte culturalmente indotto, di dividere gli esseri umani tra chi è più in alto e chi più in basso.
Chi dà aiuto e chi lo riceve sono assolutamente alla pari. Molti grandi terapeuti hanno espresso la loro gratitudine verso i loro pazienti. Cresciamo insieme, pazienti e psicoterapeuti.
Daniel Stern afferma che la relazione psicoterapeutica è, tra tutte le relazioni, quella in cui c’è maggior intimità, maggiore connessione intersoggettiva. Molti ormai sanno dell’esistenza dei “neuroni specchi”, individuati alla fine deli anni ’90 proprio all’Università di Parma. grazie ai quali il nostro cervello attiva i neuroni gli stessi neuroni che si attivano in chi stiamo guardando a seconda di cosa egli/ella stia facendo.
Sentiamo l’altro dentro di noi. I nosttri neuroni sono fatti per entrare in risonanza con i neuroni degli altri! Le nostre menti non sono isolate, fanno parte di una rete che Daniel Stern chiama Matrice soggettiva.
Rimando al mio libro Un Essere Unico (che potete acquistare attraverso questo sito, dove ne leggete il primo capitolo) per un breve excursus su ciò che si intende per Matrice Insoggettiva.
Ogni mente fa parte di questa Matrice, ed è dunque collegata. Il fatto che con una parte profonda di noi, le nostre menti sono sempre “in rete” ha  a una conseguenza fondamentale sul modo in cui si fa  psicoterapia. Banalmente, quando una persona cambia davvero anche l’ambiente, le persone intorno cambiano. Ma c’è di più.
Nella maggior parte dei sogni i personaggi del sogno rappresentano qualità o tendenze non ancora realizzate. Così le persone nella vita del paziente fanno parte del loro mondo interiore. Talvolta sono nella vita o nei ricordi del paziente nel ruolo di vessatore, di sabotatore; o sono coloro che, come genitori o caregivers, spesso senza volere hanno fatto sentire il paziente nei primissimi anni e mesi, abbandonati, inutili, reietti.
Anche i nostri partner hanno il potere che ebbero i nostri genitori quando eravamo piccolissimi: di darci ferite dall’effetto annientante. Ugualmente, amandoci davvero, quelle ferite possono risanarle!
Come il terapeuta può  rapportarsi con queste figure? Difendo il paziente, il bambino piccolo inerme, pieno d’amore non corrisposto; faccio notare l’ingiustizia o il sopruso, di cui spesso la vittima è restia a prendere atto (i bambini hanno la tendenza a denigrare se stessi e a salvare i genitori, per quanto vessatorii  essi siano).
Se il perpetratore è un partner, un collega, un capo,  mi indigno, mi arrabbio, prèdico che questi maltrattamenti devono cessare, anche con una separazione, per penosa che sia, anche perdendo il lavoro, quando la situazione è grave. che può parere troppo penosa.
Se parliamo di genitori, di ricordi, di passato, prendo le parti del bambino o del ragazzino ferito, che talvolta il paziente detesta attraverso la parte che ha interiorizzato dentro di sé di un adulto punitivo o annientante; oppure si vergogna profondamente del proprio passato, piuttosto che parlare di certe umiliazioni subite o anche solo soffermarsi sul ricordo, preferirebbe sciogliersi e colare dentro al  pavimento.
Ma, e questo è il punto difficile per terapeuta e paziente, non faccio l’avvocato difensore del paziente e metto “alla gogna” il colpevole delle sue sofferenze.
Perché? Perché il colpevole è parte della storia del paziente, fa ancora parte del suo mondo interiore. Cerco di  non versare negativo sul negativo. Non spargere odio contro  chi era tanto immerso nel negativo e nell’ignoranza da farci del male.
Accettare, con dolore, il Male che pervade in forma di inconsapevolezza, e poi di violenza, l’umanità: chi maltratta, o ha maltrattato il mio paziente, era, è, portatore  di quel Male.
Quando ho a che fare con questi temi, con la rabbia, la voglia di vendetta del paziente (che molto spesso è impossibile ottenere, così come la giustizia) dentro di me appare a volte la Giovinetta dolente, con la sua disperazione e accettazione  quieta, mentre contempla sul suo grembo il Figlio morto. La Pietà del Michelangelo nella Cappella sistina.
In certi momenti, e talvolta anche a lungo,  a tutti noi pare che il Vero, il Bello e il Buono sia stato sconfitto. Se  appena ci riusciamo, in quei momenti è di grande aiuto evocare un sentimento positivo, come la compassione. Avere compassione per gli esseri capaci di compiere orrori. Hanno perso la loro naturale empatia, il senso naturale di appartenere gli uni agli altri. Hanno perduto ciò che appartiene all’essere umano. Il cuore.  Il cuore è consapevolezza,  sentimento di unità.
“Signore perdonali perché non sanno quello che fanno”.
Menzionare  al paziente l’ipotesi di una sofferenza nascosta nel carnefice, che sia stato anch’esso colpito da ferite rimosse quando era piccolissimo,  ferite rimosse che  alterano psiche e  corpo. Chi ci ferisce è pervaso da troppa aggressività, una rabbia non più  auto affermativa e al servizio della giustizia e, ancora favorevole al gruppo umano, bensì rivolta contro di esso.
Ci sono persone che preferiscono  il male e la loro aggressività, crudele e maligna li fa sentire forti:  esportano la loro sofferenza colpendo l’altro o umiliandolo.  (Anche per questa radicale differenza tra aggressività istintiva e aggressività distruttiva, rimando a  Un Essere Unico.
Il Seminario sul Perdono  è stato uno dei Seminari che mi è rimasto più impresso, tra i Seminari  che ho condotto presso l’Istituto di Psicosintesi, nella sede di Milano.
Difficilissimo è perdonare, se non comprendo che il perdono può riguardare solo me, ed è un atto di benevolenza verso me stessa/o.  Perché la mia mente non resti inquinata con il ricordo di un fatto che continua a dolere, a farmi arrabbiare, a farmi sentire vulnerabile. Perdono per andare oltre, perché il mio paesaggio interiore sia abitato solo dalle immagini di  persone che mi fanno star bene.
Continuo a ricordare l’ingiustizia e il danno, continua a pensare che il colpevole dovrebbe chiedere perdono per la sua colpa, dovrebbe anzi offrire anche un risarcimento, che quasi mai sarebbe commisurato all’entità del danno commesso…
Ma si tratta di un lavoro di cesello psichico, per così dire, questo perdono  che riguarda il danneggiato, il ferito, e solo lui/lei. Perché allo stesso tempo nella realtà esterna l’offesa o il danno non vanno condonati. Se posso,   il colpevole devo denunciarlo alla Giustizia; devo esigere le scuse, un risarcimento (che nel mondo interiore della vittima difficilmente sarebbe commisurato all’entità del danno). Spessissimo il perpetratore infligge danni psicologici, “Molestie morali” (raccomando il libro che ha questo titolo), difficili da scoprire, ancor più difficili da dimostrare.
Ma il perdono è la strada interiore migliore per il  mio cliente, pur non escludendo azioni giudiziarie.  Alcuni pazienti vorrebbero in me un compagno per il loro odio – ricordate la “mezz’ora d’odio” di 1984 di Orwell?
Solidarizzo con il danno subito, ma non versiamo altre emozioni negative
Nella mente del paziente, che ne ha già interiorizzate abbastanza. Ecco la vittoria dei malvagi, dei cinici: avvelenare la mente delle loro vittime.
Lo psicoterapeuta è una sorta di depuratore sociale, non un bidone della spazzatura, come si dice talvolta anche degli avvocati. Mai indugiare a infierire contro i partner, i capoufficio, i colleghi i genitori, i parenti di un paziente. Cerco di aiutare il paziente, da loro maltrattato, a comprendere quale disgrazia è  essere cattivi con gli altri o indifferenti.
La nostra società troppo spesse, nella sua profonda ignoranza, ritiene che conti “vincere”, essere potenti, fa niente se a spese degli altri. La nostra società non vede il tassello fondamentale: che siamo tutti Uno.
Liberaci dal male.
Chiarire i conflitti, individuare i problemi chiamandoli con il proprio nome, e tanto altro. Lo/la psicoterapeuta ha una sorta di mappa del mondo psichico, una sorta di vocabolario per avvicinarsi al significato dei sogni. Può avere un atteggiamento attivo nei confronti delle emozioni, delle sensazioni, dei pensieri, che il paziente, se la relazione terapeutica dura abbastanza a lungo, finirà per fare suo.
Il mio processo di ingresso nel mondo del paziente è graduale. Orientarsi, in punta di piedi, con cautela, e con tutta la calma e la saggezza che ho chiamato a raccolta e che ormai accorre da sola in mio soccorso quando entro con un cliente nella stanza della terapia.
Se ci vedremo ancora, sto cominciando a far parte del suo mondo interiore.
E in questo vorrei essere una luce per lui: per lui/lei che è seduta accanto a me, che arrivi poi a portare la luce della non-ignoranza e della benevolenza entro la rete di tutte le persone che il paziente ha incontrato finora, le immagini, le parole, le energie di relazioni talvolta insignificanti, o felici, o che hanno portato tragedie.
Dentro di me comincio a precisare i miei compiti: di cosa ha bisogno questa persona? Quale sarà la sua rete di incompiutezza, aneliti, fatiche, vuoti e dolori , ha creato, ha gioito, camminando per mille strade … sono aperta con profondo interesse  a questo e quant’altro può portare un essere umano ad un altro, allenato ad aiutare, comprendendo e amando.
Liberaci dal male.

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